di Shady Hamadi | 5 FEBBRAIO 2024
“A chi dice che quello che avviene in Palestina è ‘un atto senza precedenti’ chiedo di riflettere perché è necessario criticare la monopolizzazione dell’immagine della vittima”. Nouri al Jarrah, classe 1956, è uno dei più grandi poeti arabi contemporanei. La sua voce, spesso critica, lo ha portato nei guai fin dagli anni ’80, quando lascia la Siria imboccando quel sentiero ignoto chiamato esilio. Un esilio, appunto, che dura ancora oggi, a Londra. Ma nonostante la lontananza dal Paese d’origine, al Jarrah ha continuato a scrivere i suoi versi. All’attivo ha molte raccolte di poesie, alcune tradotte in decine di lingue. In Italia, le Monnier ha pubblicato di recente l’ultimo lavoro, Esodo dall’abisso del Mediterraneo, tradotto da Francesca Maria Corrao. A dicembre, il poeta ha ricevuto una menzione speciale al Premio Napoli. “Ovviamente”, dice intervistato da ilfattoquotidiano.it nella capitale inglese, “ciò che sta accadendo oggi in Palestina è uno sterminio di massa, un genocidio: dobbiamo condannarlo ad alta voce e obbligare i fautori di questi crimini a fermarsi ed essere giudicati”.
Lei però parla di monopolio della vittima, cosa intende?
“’Un atto senza precedenti’, l’espressione utilizzata da molti commentatori televisivi pro Palestina che parlano di ciò che sta avvenendo, offende la verità: silenzia e offusca ciò che è accaduto e sta accadendo da più di dieci anni, a pochi chilometri dalla Striscia. In Siria, il regime di Bashar al-Assad, dal 15 marzo 2011 ad oggi, ha trasformato il paese in un centro di detenzione di massa e in un mattatoio di esseri umani. Il diniego dell’esistenza di un’altra vittima, quella siriana, è la cancellazione di una verità. E questa idea di monopolizzare la vittima va criticata, così da mettere in luce anche i sionisti che vorrebbero essere le uniche vittime al mondo, a discapito degli altri”.
Visto che pare dimenticata, cosa crede che l’Occidente non abbia capito della tragedia siriana?
“Non penso che l’Occidente non abbia capito cosa è successo in Siria. Direi che i rapporti di forza, gli interessi regionali e internazionali, sono ciò che hanno costretto il mondo ad accettare la trasformazione di una rivoluzione pacifica, che rivendicava democrazia e dignità, in un grande massacro inflitto al popolo. Così come ha accettato la distruzione delle città siriane e di gran parte del patrimonio culturale. Quel paese che il mondo conosceva prima della rivoluzione del 2011 non esiste più. La metà del popolo siriano è rifugiato nel mondo, mentre ciò che resta della mia patria è oggi preda condivisa tra israeliani, americani, iraniani, turchi, russi e dozzine di milizie armate”.
Della sua patria, la Siria, quale è l’ultimo ricordo che ha impresso nella memoria?
“Il momento in cui mia madre mi abbracciava per salutarmi. Mi parlava e sussurrando mi disse: ‘non tornerai più’. È morta senza vedermi ritornare a Damasco”.
Se questi rapporti di forza internazionali sussistono anche per la Palestina, perché in Europa ci si è mobilitati?
“Ci sono due motivi. La questione palestinese è vista come una causa giusta: un popolo sotto occupazione straniera che lotta per la sua liberazione da settanta anni. Il secondo motivo è il ruolo dell’occidente coloniale nella creazione di questa tragedia che, successivamente, ha creato la consapevolezza nei popoli occidentali degli errori fatti, avvicinandoli al sostegno dei palestinesi. La Siria, invece, è rimasta orfana per via degli interessi regionali e internazionali. Questo è ciò che ha trasformato il paese e i siriani in una carta sul tavolo delle agende internazionali. E il regime di Assad si è reso funzionale ad esse”.
Lei ha paragonato i siriani, ma non solo, ai troiani. Usa la mitologia greca nella sua poesia araba. Questa miscela nasce dalla voglia di costruire un ‘ponte della comprensione’?
“La questione non è usare o prendere in prestito modelli mitologici della cultura greca. Ciò che faccio nella mia poesia è riabilitare la componente orientale della cultura mediterranea che influenzò quella greca, come ha dimostrato il britannico Martin Bernal nel suo libro ‘Atene Nera’. Basti pensare al poeta Meleagro di Gadara che abbandona l’Hauran siriano per diventare il principale poeta greco a Kos. O Luciano di Samosata, scrittore, retore e filosofo. Per non parlare degli imperatori siriani come Caracalla, Gabalo, Filippo l’Arabo e Giulia Domna (nacque ad Emesa, l’attuale Homs, in Siria), dei giuristi come Papinian Di Emesa (Aemilius Papinianus) e dei grandi architetti come Apollodoro di Damasco, di origine nabatee. Ho un lungo elenco di siriani che hanno arricchito le biblioteche del mondo con le loro opere filosofiche, scientifiche, poetiche, letterarie e giuridiche che sono considerate proprietà della cultura greca. Mentre gli stessi siriani e gli arabi in rimangono all’oscuro di questi nomi”.
Eppure c’è qualcosa di irrisolto fra Oriente e Occidente: una incomprensione. Non crede?
“Ciò che mi preoccupa è la grande l’ambiguità sul fatto se l’altro siamo noi. Non è assurdo che un abitante del Mediterraneo si trovi nella sponda nord e non veda il suo volto riflesso in quello di qualcuno che si trova sulla sponda sud? Il mio messaggio poetico, dalla sponda orientale alla sponda occidentale, si rivolge innanzitutto ai poeti perché sono i più ricettivi. I poeti sono più capaci di altri ad alzare la voce, per essere il ponte d’incontro tra le due rive. La poesia non ragiona allo stesso modo dei discorsi dei politici ipocriti che elogiano la bellezza dell’incontro, nascondendo dietro la schiena coltelli e pistole. In questo senso la mia poesia è un mazzo di fiori, un invito all’amore: non c’è niente che salvi le persone dalla distruzione ideologica se non l’abbraccio tra due amanti. In amore non esistono calcoli ideologici o materiali”.